giovedì 5 febbraio 2015

Riflessioni sulle varianti della tempistica.

Da quando mi sono praticamente trasferita nella metropoli, la mia vita ha subito un'accelerata che tipo ho pigiato il pulsante del NOS. Vivere in città è tutta una corsa, corri che perdi la metro, corri che l'autobus non passa mai, corri che seicento metri di Nomentana durano Q U A R A N T A minuti (!). Insomma tutto è più veloce, addirittura i passi diventano più celeri: se prima camminavi toc toc toc ora è toctoctoctoc, ché devi arrivare a lavoro, devi aspettare l'autobus, devi trovare parcheggio se hai la macchina, devi calcolare almeno 10 minuti a piedi se hai trovato parcheggio oppure se sei fortunato e hai la fermata del bus a due passi, calcoli comunque il tempo per raggiungere la meta. Insomma, in ogni caso, devi uscire almeno un'ora e mezza in anticipo per raggiungere un qualsivoglia punto della città. Sempre se non c'è sciopero dei mezzi o il blocco delle auto. In tal caso, dieci Ave Maria e tre Padre Nostro possono bastare, se piove aggiungi pure un Salve Regina, ché fidati le Madonne si sprecheranno. Il lato buono è che dai più importanza al tuo tempo, quello cattivo è che di tempo te ne rimane veramente poco. Di sicuro la tua cultura fotografica si arricchisce perché di cose, persone, animali e situazioni strambe ne vedi tante e non finisci mai di stupirti. Lo shock iniziale nello scoprire la moltitudine di avvenimenti, avventure e avventurieri ben presto si placa, la tua persona si plasma col territorio e alla fine riesci pure a ragionare secondo quartieri, localizzi vie più o meno famose e famigerate e inizi a fare addirittura battute territoriali a seconda della persona con cui ti rapporti: non puoi dire che vivi a Talenti se sei ubicato in Viale Marx, ce stai vicino, ma mica te la puoi sentì troppo calla. CORREGGETEMI SE SBAGLIO CHE A STA COSA CE TENGO. E io, che di natura sono curiosa e impicciona, in tutto questo marasma di situazioni mi crogiolo come un criceto nella ruota.
Di corsa.
Il trauma ti viene quando scendi a valle in quel del paesino natale, dove tutti si conoscono, chiacchierano da macchina a macchina bloccando il traffico, raccontano le ultime nuove al fornaio e tu sei quella che attende il turno successivo, si sfogano sulla piaga del maltempo con l'impiegata dell'ufficio postale e tu che hai preso sei numeretti per cercare di fare prima e infilarti in qualche fila, ti ritrovi ad avere tempo per leggere "Caduta dell'Impero Romano" per intero. Il tuo tempo, che hai imparato a centellinare a forza di correre, si dilata e tu hai due possibilità:
- Ne approfitti per rilassarti
- Te parte 'n embolo
Un sondaggio sulla sottoscritta redatto da me medesima ha visto vincere la seconda possibilità più e più volte ed è per questo che ho deciso di prendere spunto da tali disavventure rabbiose per scrivere questo post che non ha né capo né coda, giusto per il gusto di far perdere un po' di tempo anche a voi e anche perché in metro B tra "Bologna" e "Conca d'Oro" il cellulare non prende e poi non ho più tempo ché ci ho da prende l'80 per Porta di Roma. Ciah.

martedì 3 febbraio 2015

Racconto breve di una giornata storta riparata da un ombrello rotto

Era una si quelle giornate brutte, fredde, ventose e piovose. Era una di quelle giornate in cui "tolgo sto cazz d'ombrello dalla borsa che mi spacca la cervicale e poi c'è il sole". Una di quelle giornate in cui esci dal lavoro e diluvia e tu l'ombrello non ce l'hai. Allora decidi di sfidare la sorte e attendere che spiova un po' prima di dirigerti alla fermata del 341 sperando che nei trecento metri che ti separano da lei non (ri)scenda l'ira di Dio che litiga con Eolo e Zeus che sta li a tirar saette giusto per il gusto di stuzzicarli. Ma la speranza è vana e tu, giunta in loco, becchi tutto ciò che la collera temporalesca può offrirti. Rassegnata e con le maledizioni in aramaico in modalità "loop on", attendi che la latitanza dei tre numeri su sei ruote si dilegui e, per ammazzare il tempo, resti immobile sotto le secchiate d'acqua pungenti e ghiacciate. Ti guardi intorno e ti accorgi di essere by yourself but not alone in quella situazione decisamente fecale e proprio quando le lacrime di rabbia e disperazione vincono sugli sproloqui vaneggianti, ecco che una vecchina ( oh ma brutta veramente povera donnina, tipo la gattara dei Simpson innestata con Donatella Versace struccata) ti si affianca armata di ombrello rotto e malandato e ti fa "signorì, se metta qui sotto che sennò se pia 'n malanno". Superate la sincope seguita dalla riflessione su quanto una lingua possa cambiare dimensione e modo di muoversi durante il parlato quando i denti scarseggiano (gliene erano rimasti 4), accetti di buon piacere di dividere il riparo con la donna più buona che potevi incontrare in quel momento. Una donna che si scusa per le condizioni penose del suo ombrello e che decide di dividere il suo sgangherato riparo con te: una sconosciuta. Una tra tanti. Improvvisamente l'aramaico torna ad essere una lingua morta e sei felice di conversare, nonostante il diluvio e le divinità in conflitto, con una persona mai vista prima e che d'improvviso, in fondo, non ti sembra neanche così bruttina. Poi arriva il suo autobus e tu ti prepari a riaccogliere la bufera insieme a tutti i tuoi già intrisi abiti e lì il miracolo. L'altruismo. L'essere gentile. La vecchina torna indietro e ti cede il suo ombrello, scusandosi nuovamente del suo stato malandato. E se ne va, salendo sul bus e lasciandoti lì, al riparo migliore che potessi sperare, a guardarla indaffarata dietro i vetri appanati senza pensare a quello che ha appena fatto: ridarti un pizzico di fiducia nel genere umano. Di conseguenza i tuoi abiti zuppi, i tuoi inalberamenti e le tue mani ghiacciate passano in secondo piano e quel rudere di ombrello, che prorio era completamente storto, non riesci a buttarlo, come se fosse un testimone in una maratona che non finisce mai.